Emozioni negative: come disinnescarle per non soffrire più.

Nel suo nuovo libro, il biologo Tancredi Militano spiega da un punto di vista scientifico perché l’educazione ricevuta da bambini ci spinga a ricercare sempre la sofferenza, e come “resettare” il meccanismo per vivere relazioni serene. Una chiave di lettura insolita, avvincente, scritta in modo chiaro, che può essere preziosa anche per i neo genitori

I sentimenti negativi inquinano le esistenze di tutti – minacciando gli affetti, le relazioni sociali e la stima di se stessi – a causa di certi “comandi” assorbiti attraverso l’educazione da bambini. Ma riavvolgere il nastro e disinnescare gli input autolesivi è possibile. È questo, in sintesi, il tema di “Il linguaggio segreto delle emozioni”, edito da Sperling & Kupfer (208 pagine, 18,90 euro, in libreria dal 10 maggio), dove il biologo Tancredi Militano – 50 anni, esperto in neuroscienze ed etologia umana – spiega con un linguaggio semplice cause, conseguenze e vie d’uscita da una condizione umana inquinata in partenza di cui poco si parla, specie da un punto di vista scientifico. Un’occasione per guardare ai sentimenti sotto la lente insolita della neuroscienza, che studia proprio le aree cerebrali coinvolte nella genesi delle emozioni e del comportamento. E per darsi nuove chances. Perché la sofferenza causata da tensioni o conflitti con il partner, con i figli, gli amici, i colleghi e i parenti si può azzerare, stabilendo legami più profondi, armonici e vivere sereni. Per riuscirci, però, bisogna liberarsi di certe “memorie” particolari.

Di cosa si tratta esattamente?

«Di veri e propri comandi appresi da piccoli, nei primi cinque anni, quando nel cervello a poco a poco si forma il “software” che lo caratterizzerà per il resto della vita», spiega Militano. «Li impartiscono continuamente i genitori mentre dettano le regole educative, senza rendersene conto, convincendo di fatto il figlio che i bravi bambini meritevoli di amore non fanno quello che desiderano (l’input sarà quindi quello di rinunciare al piacere), ma obbediscono agli adulti (messaggio: sottomettersi al volere degli altri). Se pensiamo che questi messaggi vengono ripetuti più volte al giorno, per anni, proprio quando il cervello è in fase di massima organizzazione, è chiaro che assumeranno un ruolo fondamentale in tutte le relazioni future».

Veniamo programmati per soffrire, insomma.

«È così. Ed è per questo che il cervello continua a procedere in quella direzione. Facciamo un esempio: un marito ha lavorato molto, tutto il giorno, e mentre torna a casa si prefigura la scena della moglie davanti alla tv, dopo un pomeriggio alle terme, che non gli andrà neppure incontro per salutarlo. Sentimenti di incomprensione, sconforto, rabbia. In una parola: sofferenza. Se invece alleno il mio cervello a non cadere nella trappola, posso affrontare la stessa, identica situazione in modo completamente diverso: il marito torna a casa contento della giornata di lavoro, felice di contribuire a un’organizzazione e a un tenore di vita familiare grazie alla quale la moglie ha potuto prendersi un pomeriggio da trascorrere alle terme, per concluderlo sul divano davanti al programma preferito».

Non è un semplice cambio di prospettiva…

«Si tratta di tenere a freno l’aspettativa, che tende sempre a partire in automatico, sostituendola eventualmente con previsioni corrette. Per esempio: se il capoufficio non riconosce il valore di un dipendente, ma si circonda di adulatori, il problema è chiaramente suo e difficilmente cambierà. È del tutto inutile sentirsi frustrato e continuare a soffrire per qualcosa che, nella realtà, non esiste».

Nel nuovo libro lei insegna diverse tecniche per imparare a vivere bene. A cosa devono invece prestare attenzione i genitori, per non spingere i più piccoli nel vicolo cieco della sofferenza?

«Anzitutto, a non attribuire mai loro aggettivi come “cattivo” e a non mostrare loro la propria sofferenza, perché il rischio è che il bambino cresca nella paura di quella qualifica negativa, di essere responsabile della sofferenza di mamma e papà o comunque impotente di fronte a essa».

Qual è il modo migliore di insegnare loro le regole di comportamento?

«Fare leva sul concetto di forza, invece che su quello di obbedienza. Per esempio: “Lo so che oggi non vorresti andare a scuola, ma so anche che sei talmente forte da resistere alla tentazione”».

 

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